L’analisi rituale: significati sessuali ed iniziatici
Il rito può essere facilmente studiato attraverso lo schema concettuale del rito di passaggio di Arnold Van Gennep (1919).
La struttura rituale si articola in tre momenti ben distinti (separazione, margine ed aggregazione) che a loro volta caratterizzano un rituale specifico.
Nella prima fase, definita anche pre-liminare, i protagonisti del rito vengono allontanati se non dal corpo sociale, almeno dalle loro occupazioni quotidiane. In molti casi questa fase di separazione viene anche caratterizzata da una serie di privazioni (ad esempio astinenza sessuale), o da un periodo di “apprendistato” (ad esempio il catechismo prima della comunione o cresima) che ponga le basi per la buona riuscita del rituale.
La fase liminare, o di transizione, costituisce uno stadio intermedio: è il momento in cui, nella maggior parte dei casi, nella nostra società occidentale, viene effettuato il rito stesso. In questa fase regna sovrana una situazione di ambiguità, in cui gli elementi simbolici che vengono utilizzati servono a scandire l’abbandono di uno status sociale e l’acquisizione di un nuovo ruolo all’interno della comunità. Grazie alla terza fase, quella post-liminare o di aggregazione, la società riconosce pubblicamente il cambiamento sociale dell’individuo
Analizzando la Carcavegia troviamo che la fase preliminare, ovvero di separazione, è certamente rappresentata dalla questua della legna. In questo caso un gruppo di giovani in età di matrimonio, chiede la legna casa per casa.
La fase di preparazione dei pupazzi, invece, è delegata ad altri membri della comunità, che si occupano anche di identificare i più anziani del paese.
La fase liminare, è rappresentata invece dall’evento folklorico in sé, ovvero l’accensione del falò. In questa fase, i giovani indossano un costume rituale, ovvero dei grossi campanacci da mucca attaccati alle pelvi, che scuotono rumorosamente con movimenti del bacino. Il significato dichiaratamente sessuale del campanaccio è evidente: nell’ambiente del gruppo, infatti, si scherza frequentemente sulle dimensioni del proprio “attributo”, con evidenti riferimenti a quello riproduttivo. Anche il gesto di scuotere il batacchio della campana in faccia ai membri della comunità, soprattutto ragazze, ha il chiaro significato di ostentazione di virilità.
È interessante sottolineare che i membri del gruppo, che vanno, come già detto, dai 14 sino ai 22 anni, sono ragazzi scapoli, che, durante il momento festivo, ostentano i propri attributi sessuali, in una sorta di corteggiamento verso i membri di sesso femminile della comunità. L’ostentazione del proprio pene, simbolicamente il batacchio del campanaccio, da parte dei ragazzi può inoltre essere letto come la richiesta di acquisizione dello status di uomo, non ancora riconosciuto loro.
È opportuno qui sottolineare che si tratta di un rito di passaggio particolare, che viene iterato dai giovani per diversi anni, in un clima senza dubbio goliardico, fino a che questi, per un motivo o per l’altro (solitamente perché fidanzati o sposati, quindi pienamente inseriti nella comunità di Premosello e Colloro con lo status di uomo) escono dal gruppo.
La terza fase della ritualità di Van Gennep, ovvero la fase post-liminare o di aggregazione, è rappresentata dal ritorno alla normalità, il giorno dopo, quando i giovani svestono i panni di disturbatori, e tornano alla consuetudine.
Anche nella scansione della serata, assistiamo ad una tripartizione rituale, anche se la scansione Vangenneppiana non è in questo caso particolarmente netta e distinta: prevalgono senza dubbio i momenti di aggregazione rispetto a quelli di separazione, ma i confini tra le tre fasi sono molto labili. Durante la sera del 5 gennaio, assistiamo prima ad una fase di aggregazione, seguita da una di separazione e quindi da una liminare: i giovani radunano la popolazione nella piazza, da cui si allontanano per accendere il falò, durante il quale assistiamo alle incursioni dei giovani disturbatori nei luoghi di raggruppamento comunitari, creando scompiglio e disordine.
È interessante notare come all’ingresso in società di questi nuovi giovani, che si collocano attivamente sul “mercato” matrimoniale, corrisponda l’eliminazione rituale di un'altra coppia di membri comunitari, il vecchio e la vecchia, di cui prendono il posto per mantenere l’equilibrio sociale.
Le due comunità di Premosello e Colloro, risultano, dall’analisi dell’evento, in conflitto tra di loro: lo vediamo ad esempio negli atteggiamenti goliardici di rivalità già analizzati sui due falò.
Anche le convinzioni riguardo l’assistenzialismo sociale nei confronti degli anziani vengono a crollare: i più vecchi del paese, usciti ormai dal ciclo produttivo, non sono più utili alla società e vengono per questo, simbolicamente, bruciati. Per quel che concerne il concetto di “uscita dal ciclo produttivo”, non intendo esclusivamente il loro ritiro dal lavoro nei campi, ma anche l’incapacità di questi individui di insegnare ai giovani nuove competenze in vari settori. I più vecchi del paese hanno dato tutto alla società, e non hanno più nulla che giustifichi la loro permanenza. Permanenza che in effetti non esiste più da tempo: questi anziani non prendono parte alle riunioni collettive ed alle feste, come precedentemente sottolineato.
Molti studiosi, interpretando questo complesso rituale festivo, ne hanno voluto vedere delle origini celtiche. Il falò della Carcavegia, documentato già a partire dal XV secolo, sembra trovare le sue più antiche origini al tempo della presenza celtica (Chiello, 2006, p. 42), in epoca pre-romana. Secondo questa teoria, particolarmente diffusa, il falò altro non è che un retaggio di antichi sacrifici umani in favore del dio Belen. Le festività dedicate a Belenus (il cui nome celtico è Beltine) si svolgevano all’inizio della stagione calda, ed avevano come fine quello di proteggere il bestiame che, ritualmente, veniva fatto passare tra due fuochi (Powell, 1999, p. 120). I sacrifici umani di cui si fa cenno, venivano svolti in occasione della festa di Samain, in cui il mondo ultraterreno veniva a contatto con quello terreno. Le tracce della effettiva presenza celtica, in Ossola, non sono testimoniate attraverso vestigia, quanto piuttosto nell’idioma locale. «Vi sono infatti parole che non ripetono nei nostri dialetti origine né dal latino, né dal greco, né dalle lingue tedesca, spagnuola o francese» (Bazzetta, 1978, p. 28).
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Fabio Casalini (martedì, 10 gennaio 2017 16:58)
Ciao Luca, ottima descrizione storica e antropologica; Mai banale e mai scontato.
Se ricordo bene, secondo quanto riferisce Strabone, i Celti accoltellavano la vittima con una spada e interpretavano il futuro dagli spasmi della sua morte...